venerdì 8 gennaio 2021

Epidemie nella storia: da Omero a Manzoni

L'attuale coronavirus ha prodotto numerose riflessioni sulle  epidemie che hanno attraversato la storia dell'umanità. Lo storico prof. Antonio Mucciaccio, socio del nostro sodalizio, la scorsa primavera ha scritto una interessante ricostruzione storica su questi flagelli dai tempi di Omero fino al Manzoni. E' uno studio documentato che volentieri proponiamo ai nostri lettori. 

LETTURE IN QUARANTENA

da Omero a Manzoni

di ANTONIO MUCCIACCIO

  

 

                                          -  A peste fame et bello, libera nos Domine !

                                      -  A flagello terrae motus, libera nos Domine!   

                                      -  Te rogamus,  audi nos ! 

          Queste “rogazioni” erano le preghiere e le invocazioni che in processione il popolo dei fedeli cantava,   con aria dolente e battendosi il petto, quando la morte stendeva il suo velo nero e la terra  mostrava un tragico spettacolo  di rovine, lacrime e  cadaveri.

        Ma guerra,  fame e  terremoti  le genti, pur con il terrore  negli occhi,   li vedevano bene, nelle cause e negli effetti, quando scatenavano  tutta la loro potenza distruttiva.

         C’erano invece nemici invisibili, insidiosi, letali che flagellavano periodicamente popoli e nazioni,  lasciando sul loro cammino milioni di morti.

       Poeti, storici e scrittori hanno raffigurato la devastante violenza dei nemici silenziosi e aggressivi come la peste.

        Nel primo libro dell’Iliade, Omero descrive la peste che il dio Apollo diffuse nell’accampamento dei greci che assediavano Troia.

       Crise, sacerdote di Apollo, si era recato con doni da Agamennone, pregandolo di liberare sua figlia Criseide, che era stata catturata come schiava. Ma Agamennone lo aveva  minacciato e apostrofato con parole rimaste famose:                                

                                  “Vecchio, non far che presso a queste navi

                                          né or né poscia più ti colga io mai…..

                                          Franca non fia costei, se lungi dalla patria,

                                          in Argo,nella nostra magion pria non la sfiori

                                          vecchiezza, all’opra della spola intenta,

                                         e a parte assunta del regal mio  letto.           

       Crise, allontanandosi addolorato, prega Apollo di vendicare l’oltraggio  ricevuto;   il dio l’ascolta e adirato scende dall’Olimpo e scaglia le sue mortifere frecce nel campo acheo:                           

                             Prima i giumenti e i veloci veltri la peste assalì

                                   poi le schiere degli uomini colpì a morte

                                   e per tutto il campo sulle pire bruciavano mucchi di cadaveri.”

                                                                                               (Omero, Iliade, libro I) 

                  Proprio ad Apollo  Omero,  il più grande poeta della storia prima di Dante, aveva dedicato un inno bellissimo, cantato da fanciulle e fanciulli. Stupendi sono i versi con i quali,  alla fine dell’inno, Omero si congeda rivolgendosi al coro:                                        

                                             “Fanciulle dal canto soave, dalla voce divina,

                                               ricordatevi di me anche dopo,

                                               quando qualcuno degli uomini mortali,

                                               un infelice straniero,  venga qui e vi domandi:

                                                      “O fanciulle, qual è l’aedo più famoso

                                                        che viene qui? Chi più vi diletta?”

                                               Allora voi tutte in coro rispondete di me:

                                                       “Il cieco che abita nella rocciosa Chio.”    

 

Sofocle, il più grande dei tragici  greci,  nell’ Edipo re  descrive la peste a Tebe:   

                                                                               

                                           “ Tutta in gran tempesta è la città

                                             né può levare il capo dal gorgo profondo di morte,

                                             flagellata com’è da crudelissima peste;

                                             non c’è difesa che possa alleviare i tormenti

                                             e l’alto numero dei morti distrugge la città.”

                                                                                      (Sofocle, Edipo re)

 

            Ma la peste più memorabile è quella si abbatté su Atene dal 430 al 426 a.C. e che viene  descritta in pagine impressionanti dallo storico Tucidide (Atene 460-299 a.C.).

          Egli narra tutta la portata distruttiva della peste, che provocò la morte di Pericle e cambiò il corso della storia greca, con il declino dell’età d’oro e della grandezza di Atene, culla della cultura occidentale e della democrazia nel mondo.

                   

                   “Comparve la peste per la prima volta in Etiopia, poi in Egitto e in Libia…

               In Atene giunse rapidamente contagiando per primi gli abitanti del Pireo….

               I moribondi vagavano per le strade e vicino alle fontane per l’arsura e la sete.”

                                                                                        (Tucidide, Le Storie)

                                            

                 La peste di Atene è stata tanto memorabile che le pagine di Tucidide hanno impressionato e colpito l’attenzione di due grandi poeti latini: Lucrezio  e Ovidio.

                 Lucrezio (Pompei 98 a.C. – Roma 55 a.C.) inizia il suo poema,De Rerum Natura, con il bellissimo Inno a Venere:

 

                                 “Madre degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dei,

                                   alma Venere, che sotto i vaganti astri del cielo

                                   popoli il mare solcato di navi e la terra fecondi di frutti,

                                   poiché per mezzo di te  nasce ogni specie vivente

                                   e una volta sbocciata può vedere la luce del sole.”

           

                 Ancora  più bello è il brano:

 

                           Ma niente è più dolce che stare sugli alti templi sereni,

                                  ben protetti dalla dottrina dei sapienti, da dove tu possa

                                  guardare dall’alto gli altri, e qua e là vederli cercare smarriti

                                  la via della vita, e gareggiare in nobiltà, e di notte e di giorno

                                  sforzarsi per accumulare grandi ricchezze e conquistare pieni poteri.

                                        O misere menti degli uomini, o animi ciechi !

                                        In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli

                                        si trascorre questa breve vita.”

 

                          Lucrezio sulla peste di Atene scrive:                                

                                              “Una folla di contadini da ogni parte giungeva nella città

                                                e a causa dell’arsura e della sete giacevano moribondi 

                                                intorno alle fontane con il respiro strozzato a furia di bere;

                                                la morte riempiva di cadaveri i santuari e i templi.”

                                                                                         (Lucrezio, De rerum natura)

                      Anche Ovidio  ha scritto versi straordinari sulla peste di Atene.  Nato a Sulmona (Sulmo mihi patria est) nel 43 a.C., morì a Tomi il 18 d.C. Il suo nome è legato a due  capolavori, gli Amores e l’Ars amatoria, che hanno scandalizzato Roma al tempo dell’imperatore Augusto.

              Negli Amores  Ovidio scrive che                                                  

                              la poesia non è mai toccata dalla scura morte…..

                                     Quando la fiamma mi avrà consumato ancor vivrò

                                     e molta parte di me mi sopravviverà.” 

             E nell’Ars amatoria, professandosi  esperto magister, scrive: 

                                              “ Se della gente c’è in questo paese,

                                                 che ignora l’arte dell’amore

                                                   legga questo poema….” 

                   “Le due opere sono impreziosite e arricchite ad ogni passo da continui e lunghi riferimenti ed episodi, che mettono in campo dei ed eroi, con le loro mitiche avventure e imprese amatorie e con le loro disavventure provocate da impulsi e gesti inconsulti, che hanno prodotto insuccessi e rovine.

                      Anche se Ovidio è troppo scafato per dar credito alla religiosità di facciata della Roma augustea, pure il suo continuo e persistente mettere in scena fatti e vicende di dei ed eroi è quasi un mettere le mani avanti di fronte alle critiche degli arcigni censori, come a voler replicare: se gli dei e i mitici eroi sono stati grandi protagonisti e non si sono astenuti da alcuna avventura o prodezza amatoria, per quale ragione vogliamo impedire agli uomini e alle donne di fare altrettanto?

                       Tale evidente rappresentazione e ostentazione delle fatiche amorose di dei e semidei non trattenne  però Augusto dal relegare in esilio, in un luogo remotissimo, l’autore degli Amores e dell’Arsa amatoria.

                       Anche perché Ovidio, molto probabilmente, aveva personalmente sperimentato e messo in pratica i suoi insegnamenti con Giulia, la nipote di Augusto. Per questo grave error,  lui fu spedito in esilio a Tomi nel Ponto (l’attuale città di Costanza in Romania, sul mar Nero) dove morì,  e Giulia fu relegata e confinata nelle isole Tremiti dove pure lei morì.”  (A. Mucciaccio, Prefazione al libro: Publio Ovidio Nasone, ARS AMATORIA  e AMORES, versione integrale moderna di Giuseppe Gualtieri, Lanciano, Carabba editore, 2006)                

                    Sulla peste di Atene Ovidio ha scritto i seguenti versi: 

                                             

                                                “Una peste tremenda si abbatté sugli abitanti,

                                                  inflitta dall’ira di Giunone adirata perché una città (Atene)

                                                  portava il nome della dea rivale (Atena).

                                                  Per le strade giacevano corpi in sfacelo;

                                                  il flagello vinse ogni cura; scoppiò spietato

                                                  anche fra i medici, che rimasero vittime della loro arte.

                                                  Tutti si attaccavano alle fonti, ai fiumi, ai pozzi,

                                                  ma, a furia di bere,  la sete si estingueva solo con la morte.”

                                                                                                             (Ovidio, Metamorfosi)

 

             Procopio di Cesarea (490 – 560) descrive la peste che ha infierito su Bisanzio negli anni 541 e 542 .

          

         “ I morti arrivarono e cinque e a diecimila….Nella desolata Bisanzio non vedevi più artigiani al lavoro, non fondaci aperti, non traffici e  molti abitanti,  terrorizzati dal flagello,  rivolsero la mente a Dio e alla religione.”

                                                                                    (Procopio di Cesarea, Guerra persiana)    

 

           Dopo la peste di Atene,  la  più famosa è quella di Firenze del 1348,  che fece venire alla luce un grande capolavoro della letteratura italiana, il Decamerone di Giovanni Boccaccio:

         

           “Erano già  gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti 1348, quando nell’egregia città di Firenze pervenne la pestifera pestilenza….oltre a centomila, si crede per certo,  dentro alle mura della città essere stati di vita tolti……..

            Nella venerabile chiesa di S. Maria Novella un martedì mattina si ritrovarono sette giovani donne: Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia,Lauretta, Neifile ed Elissa…..

            Pampinea (disse):   -  Ho sentito e veduto che l’appetito chiegge solo, di dì e di notte, fare quelle cose che più diletto porgono,  e non sole le donne libere, ma ancora le racchiuse ne’ monasteri, rotte le leggi, datesi a’ diletti carnali, avvisando in tal guisa scampare (alla peste), son diventate lascive e dissolute. E se così è, che facciam noi qui? Che attendiamo? Io giudicherei ottimamente che noi di questa città uscissimo e a’ nostri luoghi in contado ce n’andassimo a stare, e quivi quel piacere che noi potessimo prendessimo.                                                                             

Giovanni Boccaccio, Decamerone)                                 

 

            Boccaccio dedica alla peste di Firenze solo il capitolo introduttivo del Decamerone e poi si trasferisce lontano,al sicuro,  nelle campagne del contado di Firenze,dove le sette fanciulle e  tre giovani  narrano le 100 novelle.

     

        Alessandro Manzoni invece ha scritto tre lunghi capitoli (XXX, XXXI, XXXII )de        I Promessi Sposi per narrare la peste che, negli anni 1629 e 1630,  ha  spopolato” Milano.

        Su questi capitoli si è soffermata maggiormente la mia attenzione nei giorni della quarantena,  disposta per arginare la pandemia del coronavirus: un nemico invisibile e silenzioso, che si è diffuso in tutto il mondo,ha contagiato milioni di persone, ha provocato migliaia e migliaia di morti,  ha scosso le nostre certezze “nelle magnifiche sorti e progressive”,   ha modificato e messo in discussione le nostre abitudini e i nostri modi di vivere, per cui dopo questo flagello il mondo non sarà più come prima.

        Ma  la costrizione della quarantena non mi ha  reso “ottuso nell’ozio”, anzi mi ha consentito di dedicarmi a tempo pieno agli amori dai quali non si divorzia mai: i libri.

        E nel mio esilio, pure stando  sempre a debita distanza da familiari, parenti e amici,  non ho tenuto mai a distanza i tanti autori che mi hanno fatto compagnia. E mi sono sentito vicino a Machiavelli che, dall’esilio di S. Casciano, descriveva a Francesco Vettori come trascorreva le sue giornate,  avendo per compagni

                            

                             “o Dante, o Petrarca o i poeti Tibullo e Ovidio: leggo quelle loro amorose                         

                               passioni e quelli loro amori. Ma venuta la sera….entro nel mio scrittoio…

                                    e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno,

                                    non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte.”             

 

 

          Così   con grande piacere ho riletto  I Promessi Sposi:

        Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno ……Lecco è un gran borgo al giorno d’oggi. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo era anche un castello, e aveva perciò l’onore  (sentite quale onore !), d’alloggiare un comandante, e il vantaggio (sentite quale vantaggio !) di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavano di tempo in tempo le spalle a qualche marito  e a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia.”  

                E come è stato bello rileggere pagine memorabili: “Carneade ! Chi era costui?...., Addio monti, sorgenti dall’acque ed elevati la cielo……, La sventurata rispose……, Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…..”

               E che piacere rigustare tutta la sottile ironia con la quale Manzoni  descrive don Abbondio,  Renzo,  Lucia,  Agnese,  Perpetua, il dottor Azzeccagarbugli e i polli che si beccavano a vicenda!

             Ma poi ho fissato i miei occhi nella lettura dei capitoli XXXI, XXXII e XXXIII, nei quali Manzoni descrive la peste che ha flagellato Milano nel 1629  e nel 1630.   

               

       Come da noi il coronavirus, anche allora   la peste arrivò  con il contagiato n. 1.   

 

          “Un soldato italiano al servizio di Spagna, Pietro Antonio Lovato, entrò in Milano con gran fagotto di vesti comprate o rubate a’ soldati alemanni…… appena arrivato dai suoi parenti s’ammalò e il quarto giorno morì, ma intanto aveva lasciato fuori un seminìo che non tardò a germogliare.”

 

                   Nel contado di Milano  “furono  spediti due delegati a vedere e a provvedere, il Tadino e un auditore del tribunale. Quando giunsero il male s’era già tanto dilatato….e gli abitanti scappati e attendati alla campagna o dispersi;  et ci parevano  -  scrive  il  Tadino  -  tante creature selvatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla di aceto.”

 

                     Anche allora, come oggi col coronavirus,  la popolazione agli inizi non voleva nemmeno sentir nominare la parola peste.

 

                    “ciò che fa nascere un’altra e più forte meraviglia è la condotta della popolazione……sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo.”

 

                   

                      Anche i medici si divisero in due partiti: i pochi che capivano la potenza distruttiva del morbo e i molti che facevano propria la voce del popolo.

                     E ancora oggi la storia si ripete: ci sono medici che ci mettono in guardia e ci dicono di stare in quarantena, agli arresti domiciliari, e medici che affermano che il coronavirus  è una semplice influenza e che si può andare tranquillamente in giro a festeggiare di giorno e di notte 

 

                     “Molti medici , facendo eco alla voce del popolo, deridevano gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevano pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste.”

 

 

                        “L’odio principale cadeva sui due medici (che lanciavano allarmi),  il Tadino e il Settala, a tal segno che  ormai non potevano attraversare le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovarono quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, di affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove cercavano aiuti e d’essere insieme bersaglio delle grida e avere il nome di nemici della patria.”

 

                    “Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore all’università di Pavia….. un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, gli si radunò intorno gente, gridando  esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste….. Questo gli toccò per aver veduto chiaro, e detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone.”

 

                        Pure  quando la peste aveva dispiegato tutta la sua potenza distruttiva,

 

               “ I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole.”

 

                         Anche i governanti allora,  come oggi Donald Trump e Boris Johnson, hanno sottovalutato e sottostimato i pericoli e solo quando hanno visto le strade di Milano piene di cadaveri si sono svegliati dal “profondo sonno”.

 

                      “I Magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte.”

 

                       Solo allora,  scrive il Tadino:  gli increduli medici et la plebe ignorante e temeraria cominciò a stringere le labbra, a chiudere i denti et inarcare le ciglia.”   

 

                   Ma in quel tempo assistiamo a un altro fenomeno che, puntualmente, abbiamo rivisto anche in questi giorni, quando ha girato e gira ancora in rete la bufala che gli “untori” malefici del coronavirus sono i cinesi, insistendo in questa convinzione anche quando la scienza e l’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno sconfessato queste assurde dicerie.

 

               “Coloro i quali  avevano negato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male  che poteva propagarsi e fare una strage, non potendo ormai negare…… lo attribuirono ad arti malefiche, a operazioni diaboliche, a gente congiurata a sparger la peste per mezzo di veleni contagiosi, di malìe….. Si disse e si credette generalmente che fossero state unte in duomo tutte le panche, le pareti, e fin le corde delle campane…..molti nel pubblico credevano esser quella un’unzione velenosa; chi voleva che  fosse una vendetta di don Don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gli insulti ricevuti; chi un ritrovato del cardinal Richelieu, per spopolare Milano e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto.”

 

                    E anche allora, come oggi, si sono visti tanti “ciarlatani” ai quali, come tanti Archimede, è bastato un qualsiasi pretesto,come punto d’appoggio per sollevare il mondo.

 

 

                        “E perché, tanto nel lazzaretto, come per la città  alcuni pur ne guarivano, si diceva dalla plebe, et ancor più da molti medici parziali, non essere vera peste, perché (altrimenti) tutti sarabbero morti.  Per levare ogni dubbio, trovò il Tribunale della Sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi….

                        In una delle feste della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di san Gregorio, fuori di Porta Orientale, a pregar per i morti dell’altro contagio (del 1576), ch’eran sepolti là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci andavano ognuno più in gala che potesse.

                          Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora di maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto su un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro.”

 

 

                       “ In principio dunque non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali; l’idea si ammette, per isbieco, in un aggettivo.  Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome…….

                        Si potrebbe però evitare quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.”

 

                     Osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.”

        Parole sante e sempre tanto attuali, scritte dal Manzoni quasi due secoli fa !

        Ma quanti di coloro, che in questi tempi hanno invaso e invadono la stampa e la rete, prima di scrivere e dire sciocchezze,  hanno osservato, ascoltato, paragonato, pensato?

          Si è data la stura a infinite ciarle, più numerose dei coronavirus, con le quali si è affermato tutto e il contrario di tutto. Per giorni e giorni si è gridato: “Chiudere tutto”! e “Aprire tutto”!

 

                       C’è stato anche qualche ciarlatano che ha criticato Papa Francesco perché non doveva andare solo,  di notte,  in una piazza San Pietro, vuota, deserta,  flagellata da una pioggia torrenziale. “Piazza San Pietro doveva essere stracolma di gente! Specialmente perché le immagini erano in mondovisione!

 

                       Per fortuna Papa Francesco è stato più forte del povero Federico Borromeo.

                           “I decurioni chiesero al cardinale arcivescovo (Federico Borromeo) che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di San Carlo (Borromeo).  Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni….. Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavano ripetendo le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente.

                          Federigo resistette ancora qualche tempo……. Ma al replicar delle istanze, acconsentì che si facesse la processione.

                           L’undici giugno (1630) la processione uscì all’alba dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte…. Venivano poi  l’arti precedute dai loro gonfaloni, le confraternite, poi le fraterie, poi il clero secolare…. Nel mezzo s’avanza la cassa (col corpo di San Carlo), portata da quattro canonici, parati in gran pompa….. Dietro la spoglia del morto pastore, veniva l’arcivescovo Federigo, poi i magistrati, poi i nobili; finalmente una coda d’altro popolo misto.

                                     Ed ecco che il giorno seguente le morti crebbero in ogni parte della città…. Ma, oh forze mirabili e dolorose di un pregiudizio generale! Non all’infinità dei contatti attribuivano i più quell’effetto, ma agli untori …. Si disse che polveri venefiche e malefiche, sparse lungo la strada, si fossero attaccate agli strascichi dei vestiti, e tanto più ai piedi, chè in gran numero erano quel giorno andati scalzi….. il povero senno umano cozzava con i fantasmi creati da sé!

                              Da quel giorno la furia del contagio andò sempre crescendo…. E la popolazione di Milano si trovò  ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, mentre prima passava le dugento cinquanta mila…..

                               Bisognava tener fornito il lazzaretto di medici, di chirurghi, di medicine…..bisognava preparar nuovo alloggio per gli ammalati.

                               Moriva d’abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste.

                              I dotti vedevano, la più parte, l’annunzio e la  ragione  de’ guai in una cometa apparsa l’anno 1628 e in una congiunzione di Saturno con Giove…….Pescavan ne’ libri esempi di peste manufatta; …. Citavano cent’altri autori, che hanno trattato….di veleni, di malìe, di polveri….,e quel funesto Delrio,…..  le cui Disquisizioni Magiche….furono per più di un secolo norma e impulso potente di orribili e non interrotte carneficine.

                              I processi che ne vennero in conseguenza non erano certamente una rarità nella storia…..perchè in Palermo nel 1526, in Ginevra nel 1530, poi nel 1545 e ancora nel 1574; in Casal Monferrato nel 1536, in Torino nel 1599 e di nuovo nel 1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi,   molti infelici, come rei di aver propagata la peste, con polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme.

                             Ma l’affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre,…..c’è parso che potesse essere materia d’un nuovo lavoro (che sarà la Storia della Colonna Infame, opera che è un severo atto d’accusa contro quei giudici  che in Milano hanno estorto le più orribili confessioni, sotto i tormenti di atroci torture, e hanno condannato e ucciso  degli innocenti,  comportandosi da veri  criminali della giustizia).

 

                          In conclusione si può affermare,  dopo quasi 400 anni: “Nihil sub sole novi” (non c’è niente di nuovo sotto il sole!).

 

                             3 aprile 2020  

                                           Antonio  Mucciaccio

 

                                 

                                                                       

                                           


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