da Omero a Manzoni
di ANTONIO MUCCIACCIO
- A peste fame et bello, libera nos Domine !
- A
flagello terrae motus, libera nos Domine!
- Te rogamus,
audi nos !
Queste “rogazioni”
erano le preghiere e le invocazioni che in processione il popolo dei fedeli
cantava, con aria dolente e battendosi
il petto, quando la morte stendeva il suo velo nero e la terra mostrava un tragico spettacolo di rovine, lacrime e cadaveri.
Ma guerra, fame e terremoti le genti, pur con il terrore negli occhi,
li vedevano bene, nelle cause e
negli effetti, quando scatenavano tutta
la loro potenza distruttiva.
C’erano invece nemici invisibili, insidiosi,
letali che flagellavano periodicamente popoli e nazioni, lasciando sul loro cammino milioni di morti.
Poeti, storici e scrittori hanno
raffigurato la devastante violenza dei nemici silenziosi e aggressivi come la
peste.
Nel primo libro dell’Iliade, Omero
descrive la peste che il dio Apollo diffuse nell’accampamento dei greci che
assediavano Troia.
Crise, sacerdote di Apollo, si era recato con doni da Agamennone, pregandolo di liberare sua figlia Criseide, che era stata catturata come schiava. Ma Agamennone lo aveva minacciato e apostrofato con parole rimaste famose:
“Vecchio, non far che presso a queste navi
né or
né poscia più ti colga io mai…..
Franca non fia costei, se lungi dalla patria,
in
Argo,nella nostra magion pria non la sfiori
vecchiezza, all’opra della spola intenta,
e a parte assunta del regal mio letto.
Crise, allontanandosi addolorato, prega Apollo di vendicare l’oltraggio ricevuto; il dio l’ascolta e adirato scende dall’Olimpo e scaglia le sue mortifere frecce nel campo acheo:
“ Prima i giumenti e i veloci veltri la peste assalì
poi le
schiere degli uomini colpì a morte
e per tutto
il campo sulle pire bruciavano mucchi di cadaveri.”
(Omero, Iliade, libro I)
Proprio ad Apollo Omero, il più grande poeta della storia prima di Dante, aveva dedicato un inno bellissimo, cantato da fanciulle e fanciulli. Stupendi sono i versi con i quali, alla fine dell’inno, Omero si congeda rivolgendosi al coro:
“Fanciulle dal canto soave, dalla voce divina,
ricordatevi di me anche dopo,
quando qualcuno degli uomini mortali,
un infelice
straniero, venga qui e vi domandi:
“O fanciulle, qual è l’aedo più famoso
che
viene qui? Chi più vi diletta?”
Allora voi tutte in coro rispondete di me:
“Il cieco che abita nella rocciosa Chio.”
Sofocle, il più grande dei tragici greci, nell’ Edipo
re descrive la peste a Tebe:
“ Tutta in gran tempesta è la città
né può levare
il capo dal gorgo profondo di morte,
flagellata com’è da crudelissima
peste;
non c’è difesa che possa alleviare i tormenti
e
l’alto numero dei morti distrugge la città.”
(Sofocle, Edipo re)
Ma la peste
più memorabile è quella si abbatté su Atene dal 430 al 426 a.C. e che viene descritta in pagine impressionanti dallo
storico Tucidide (Atene 460-299 a.C.).
Egli narra
tutta la portata distruttiva della peste, che provocò la morte di Pericle e
cambiò il corso della storia greca, con il declino dell’età d’oro e della
grandezza di Atene, culla della cultura occidentale e della democrazia nel
mondo.
“Comparve
la peste per la prima volta in Etiopia, poi in Egitto e in Libia…
In Atene giunse rapidamente contagiando
per primi gli abitanti del Pireo….
I moribondi vagavano per le strade e vicino
alle fontane per l’arsura e la sete.”
(Tucidide, Le Storie)
La peste di Atene è stata tanto memorabile che
le pagine di Tucidide hanno impressionato e colpito l’attenzione di due grandi
poeti latini: Lucrezio e Ovidio.
Lucrezio (Pompei 98 a.C. – Roma 55 a.C.)
inizia il suo poema,De Rerum Natura, con
il bellissimo Inno a Venere:
“Madre degli
Eneadi, voluttà degli uomini e degli dei,
alma Venere, che sotto i
vaganti astri del cielo
popoli il
mare solcato di navi e la terra fecondi di frutti,
poiché per
mezzo di te nasce ogni specie vivente
e una volta
sbocciata può vedere la luce del sole.”
Ancora più bello è il brano:
“Ma niente è più
dolce che stare sugli alti templi sereni,
ben protetti dalla dottrina dei
sapienti, da dove tu possa
guardare
dall’alto gli altri, e qua e là vederli cercare smarriti
la via della
vita, e gareggiare in nobiltà, e di notte e di giorno
sforzarsi per
accumulare grandi ricchezze e conquistare pieni poteri.
O
misere menti degli uomini, o animi ciechi !
In
quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli
si trascorre
questa breve vita.”
Lucrezio sulla peste di Atene scrive:
“Una
folla di contadini da ogni parte giungeva nella città
e a causa dell’arsura e della sete giacevano moribondi
intorno alle fontane con il respiro strozzato
a furia di bere;
la morte riempiva di cadaveri i santuari e i templi.”
(Lucrezio, De rerum natura)
Anche Ovidio ha scritto versi straordinari sulla peste di Atene. Nato a Sulmona (Sulmo mihi patria est) nel 43 a.C., morì a Tomi il 18 d.C. Il suo nome è legato a due capolavori, gli Amores e l’Ars amatoria, che hanno scandalizzato Roma al tempo dell’imperatore Augusto.
Negli Amores Ovidio scrive che
“la poesia non è mai toccata dalla
scura morte…..
Quando la
fiamma mi avrà consumato ancor vivrò
e molta parte di me mi sopravviverà.”
E nell’Ars
amatoria, professandosi esperto
magister, scrive:
“ Se della gente c’è in
questo paese,
che ignora l’arte dell’amore
legga questo poema….”
“Le due opere sono impreziosite e arricchite ad ogni passo da continui e
lunghi riferimenti ed episodi, che mettono in campo dei ed eroi, con le loro
mitiche avventure e imprese amatorie e con le loro disavventure provocate da
impulsi e gesti inconsulti, che hanno prodotto insuccessi e rovine.
Anche se Ovidio è troppo scafato
per dar credito alla religiosità di facciata della Roma augustea, pure il suo continuo
e persistente mettere in scena fatti e vicende di dei ed eroi è quasi un
mettere le mani avanti di fronte alle critiche degli arcigni censori, come a
voler replicare: se gli dei e i mitici
eroi sono stati grandi protagonisti e non si sono astenuti da alcuna avventura
o prodezza amatoria, per quale ragione vogliamo impedire agli uomini e alle
donne di fare altrettanto?
Tale evidente rappresentazione e
ostentazione delle fatiche amorose di dei e semidei non trattenne però Augusto dal relegare in esilio, in un
luogo remotissimo, l’autore degli Amores e
dell’Arsa amatoria.
Anche perché Ovidio, molto probabilmente, aveva personalmente sperimentato e messo in pratica i suoi insegnamenti con Giulia, la nipote di Augusto. Per questo grave error, lui fu spedito in esilio a Tomi nel Ponto (l’attuale città di Costanza in Romania, sul mar Nero) dove morì, e Giulia fu relegata e confinata nelle isole Tremiti dove pure lei morì.” (A. Mucciaccio, Prefazione al libro: Publio Ovidio Nasone, ARS AMATORIA e AMORES, versione integrale moderna di Giuseppe Gualtieri, Lanciano, Carabba editore, 2006)
“Una peste tremenda si abbatté sugli
abitanti,
inflitta dall’ira di Giunone adirata perché una città (Atene)
portava il nome della dea rivale (Atena).
Per le strade
giacevano corpi in sfacelo;
il flagello
vinse ogni cura; scoppiò spietato
anche fra i medici, che rimasero vittime della loro arte.
Tutti si attaccavano alle fonti, ai fiumi, ai pozzi,
ma, a furia di bere, la sete si estingueva solo con la morte.”
(Ovidio, Metamorfosi)
Procopio
di Cesarea (490 – 560) descrive la peste che ha infierito su Bisanzio negli
anni 541 e 542 .
“ I
morti arrivarono e cinque e a diecimila….Nella desolata Bisanzio non vedevi più
artigiani al lavoro, non fondaci aperti, non traffici e molti abitanti, terrorizzati dal flagello, rivolsero la mente a Dio e alla religione.”
(Procopio di
Cesarea, Guerra persiana)
Dopo la peste di Atene, la più
famosa è quella di Firenze del 1348, che
fece venire alla luce un grande capolavoro della letteratura italiana, il Decamerone di Giovanni Boccaccio:
“Erano già gli anni della fruttifera Incarnazione del
Figliuolo di Dio al numero pervenuti 1348, quando nell’egregia città di Firenze
pervenne la pestifera pestilenza….oltre a centomila, si crede per certo, dentro alle mura della città essere stati di
vita tolti……..
Nella venerabile chiesa di S. Maria
Novella un martedì mattina si ritrovarono sette giovani donne: Pampinea,
Fiammetta, Filomena, Emilia,Lauretta, Neifile ed Elissa…..
Pampinea (disse): - Ho sentito e veduto che l’appetito chiegge solo, di dì e di notte, fare quelle cose che più diletto porgono, e non sole le donne libere, ma ancora le racchiuse ne’ monasteri, rotte le leggi, datesi a’ diletti carnali, avvisando in tal guisa scampare (alla peste), son diventate lascive e dissolute. E se così è, che facciam noi qui? Che attendiamo? Io giudicherei ottimamente che noi di questa città uscissimo e a’ nostri luoghi in contado ce n’andassimo a stare, e quivi quel piacere che noi potessimo prendessimo.
Giovanni Boccaccio, Decamerone)
Boccaccio dedica alla peste di Firenze solo il
capitolo introduttivo del Decamerone
e poi si trasferisce lontano,al sicuro, nelle
campagne del contado di Firenze,dove le sette fanciulle e tre giovani
narrano le 100 novelle.
Alessandro Manzoni invece ha scritto tre
lunghi capitoli (XXX, XXXI, XXXII )de
I Promessi Sposi per narrare la peste che, negli anni 1629 e 1630, ha “spopolato” Milano.
Su questi
capitoli si è soffermata maggiormente la mia attenzione nei giorni della quarantena, disposta per arginare la pandemia del coronavirus: un nemico invisibile e
silenzioso, che si è diffuso in tutto il mondo,ha contagiato milioni di
persone, ha provocato migliaia e migliaia di morti, ha scosso le nostre certezze “nelle magnifiche sorti e progressive”, ha modificato
e messo in discussione le nostre abitudini e i nostri modi di vivere, per cui
dopo questo flagello il mondo non sarà più come prima.
Ma la costrizione della quarantena non mi ha reso “ottuso
nell’ozio”, anzi mi ha consentito di dedicarmi a tempo pieno agli amori dai
quali non si divorzia mai: i libri.
E nel mio
esilio, pure stando sempre a debita
distanza da familiari, parenti e amici,
non ho tenuto mai a distanza i tanti autori che mi hanno fatto compagnia.
E mi sono sentito vicino a Machiavelli che, dall’esilio di S. Casciano, descriveva
a Francesco Vettori come trascorreva le sue giornate, avendo per compagni
“o Dante, o Petrarca o i poeti Tibullo e Ovidio: leggo
quelle loro amorose
passioni e quelli
loro amori. Ma venuta la sera….entro nel mio scrittoio…
e non sento per
quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno,
non temo la
povertà, non mi sbigottisce la morte.”
Così
con grande piacere ho riletto I Promessi Sposi:
“Quel
ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno ……Lecco è un gran borgo al
giorno d’oggi. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare,
quel borgo era anche un castello, e aveva perciò l’onore (sentite quale onore
!), d’alloggiare un comandante, e il
vantaggio (sentite quale vantaggio !) di
possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavano la
modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavano di tempo in tempo
le spalle a qualche marito e a qualche
padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per
diradar l’uve e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia.”
E come è stato bello rileggere
pagine memorabili: “Carneade ! Chi era
costui?...., Addio monti, sorgenti dall’acque ed elevati la cielo……, La sventurata
rispose……, Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…..”
E che piacere rigustare
tutta la sottile ironia con la quale Manzoni
descrive don Abbondio,
Renzo, Lucia, Agnese, Perpetua, il dottor Azzeccagarbugli e i polli
che si beccavano a vicenda!
Ma poi ho fissato i miei occhi
nella lettura dei capitoli XXXI, XXXII e XXXIII, nei quali Manzoni descrive la
peste che ha flagellato Milano nel 1629 e
nel 1630.
Come da noi il coronavirus, anche
allora la peste arrivò con il contagiato n. 1.
“Un soldato italiano al servizio di Spagna,
Pietro Antonio Lovato, entrò in Milano con gran fagotto di vesti comprate o
rubate a’ soldati alemanni…… appena arrivato dai suoi parenti s’ammalò e il
quarto giorno morì, ma intanto aveva lasciato fuori un seminìo che non tardò a
germogliare.”
Nel contado di Milano “furono
spediti due delegati a vedere e a provvedere, il Tadino e un auditore
del tribunale. Quando giunsero il male s’era già tanto dilatato….e gli abitanti
scappati e attendati alla campagna o dispersi; et ci
parevano - scrive il
Tadino - tante
creature selvatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il
rosmarino et chi una ampolla di aceto.”
Anche allora, come oggi col coronavirus, la popolazione agli inizi non voleva nemmeno
sentir nominare la parola peste.
“ciò che fa nascere un’altra e più forte
meraviglia è la condotta della popolazione……sulle piazze, nelle botteghe, nelle
case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto
con beffe incredule, con disprezzo iracondo.”
Anche
i medici si divisero in due partiti: i pochi che capivano la potenza
distruttiva del morbo e i molti che facevano propria la voce del popolo.
E ancora oggi la storia si ripete: ci sono medici che ci mettono in guardia e ci dicono di stare in quarantena, agli arresti domiciliari, e medici che affermano che il coronavirus è una semplice influenza e che si può andare tranquillamente in giro a festeggiare di giorno e di notte
“Molti
medici , facendo eco alla voce del popolo, deridevano gli augùri sinistri, gli
avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevano pronti nomi di malattie comuni,
per qualificare ogni caso di peste.”
“L’odio principale cadeva sui due medici (che lanciavano allarmi), il Tadino e il Settala, a tal segno che ormai non potevano attraversare le piazze
senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu
singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche
mese, si trovarono quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello,
di affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove
cercavano aiuti e d’essere insieme bersaglio delle grida e avere il nome di
nemici della patria.”
“Il
protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato
professore all’università di Pavia….. un giorno che andava in bussola a
visitare i suoi ammalati, gli si radunò intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per
forza che ci fosse la peste….. Questo gli toccò per aver veduto chiaro, e detto
ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone.”
Pure quando la peste aveva dispiegato tutta la sua
potenza distruttiva,
“ I medici opposti alla opinion del contagio,
non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome
generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per
andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti:
miserabile transazione, anzi trufferia di parole.”
Anche i governanti allora, come oggi Donald Trump e Boris Johnson, hanno
sottovalutato e sottostimato i pericoli e solo quando hanno visto le strade di
Milano piene di cadaveri si sono svegliati dal “profondo sonno”.
“I
Magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un
po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi
editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte.”
Solo allora, scrive il Tadino: “gli increduli medici et la plebe ignorante e
temeraria cominciò a stringere le labbra, a chiudere i denti et inarcare le
ciglia.”
Ma in quel tempo assistiamo a un
altro fenomeno che, puntualmente, abbiamo rivisto anche in questi giorni,
quando ha girato e gira ancora in rete la bufala che gli “untori” malefici del coronavirus sono i cinesi, insistendo in
questa convinzione anche quando la scienza e l’Organizzazione Mondiale della
Sanità hanno sconfessato queste assurde dicerie.
“Coloro i quali avevano negato così risolutamente, e così a
lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male che poteva propagarsi e fare una strage, non
potendo ormai negare…… lo attribuirono ad arti malefiche, a operazioni
diaboliche, a gente congiurata a sparger la peste per mezzo di veleni
contagiosi, di malìe….. Si disse e si credette generalmente che fossero state
unte in duomo tutte le panche, le pareti, e fin le corde delle campane…..molti
nel pubblico credevano esser quella un’unzione velenosa; chi voleva che fosse una vendetta di don Don Gonzalo
Fernandez de Cordova, per gli insulti ricevuti; chi un ritrovato del cardinal
Richelieu, per spopolare Milano e impadronirsene senza fatica; altri, e non si
sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto.”
E
anche allora, come oggi, si sono visti tanti “ciarlatani” ai quali, come tanti Archimede, è bastato un qualsiasi
pretesto,come punto d’appoggio per sollevare il mondo.
“E perché, tanto nel lazzaretto, come per la città alcuni pur ne guarivano, si diceva dalla
plebe, et ancor più da molti medici parziali, non essere vera peste, perché (altrimenti)
tutti sarabbero morti. Per levare ogni
dubbio, trovò il Tribunale della Sanità un espediente proporzionato al bisogno,
un modo di parlare agli occhi….
In una delle feste della Pentecoste, usavano i
cittadini di concorrere al cimitero di san Gregorio, fuori di Porta Orientale,
a pregar per i morti dell’altro contagio (del 1576), ch’eran sepolti là; e,
prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci
andavano ognuno più in gala che potesse.
Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia.
Nell’ora di maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo e a
piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al
cimitero suddetto su un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi
il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore,
s’alzava per tutto dove passava il carro.”
“ In principio dunque non peste, assolutamente no, per nessun conto:
proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali; l’idea si
ammette, per isbieco, in un aggettivo.
Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non
peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome…….
Si potrebbe però evitare quel corso così lungo e così storto, prendendo
il metodo d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.”
“Osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.”
Parole sante e
sempre tanto attuali, scritte dal Manzoni quasi due secoli fa !
Ma quanti di coloro, che in questi tempi hanno
invaso e invadono la stampa e la rete, prima di scrivere e dire sciocchezze, hanno osservato, ascoltato, paragonato,
pensato?
Si è data la stura a infinite ciarle, più
numerose dei coronavirus, con le quali si è affermato tutto e il contrario di
tutto. Per giorni e giorni si è gridato: “Chiudere
tutto”! e “Aprire tutto”!
C’è stato anche qualche ciarlatano che ha criticato Papa Francesco
perché non doveva andare solo, di notte,
in una piazza San Pietro, vuota, deserta,
flagellata da una pioggia torrenziale. “Piazza San Pietro doveva essere stracolma di
gente! Specialmente perché le immagini erano in mondovisione!
Per fortuna Papa Francesco è stato più forte del povero Federico
Borromeo.
“I decurioni chiesero al cardinale
arcivescovo (Federico Borromeo) che si facesse una processione solenne, portando
per la città il corpo di San Carlo (Borromeo).
Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni….. Ma i decurioni, non disanimati
dal rifiuto del savio prelato, andavano ripetendo le loro istanze, che il voto
pubblico secondava rumorosamente.
Federigo resistette ancora qualche tempo……. Ma
al replicar delle istanze, acconsentì che si facesse la processione.
L’undici giugno (1630) la processione uscì all’alba dal duomo. Andava
dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte…. Venivano poi l’arti precedute dai loro gonfaloni, le
confraternite, poi le fraterie, poi il clero secolare…. Nel mezzo s’avanza la
cassa (col corpo di San Carlo), portata da quattro canonici, parati in gran
pompa….. Dietro la spoglia del morto pastore, veniva l’arcivescovo Federigo,
poi i magistrati, poi i nobili; finalmente una coda d’altro popolo misto.
Ed ecco che il giorno seguente le morti
crebbero in ogni parte della città…. Ma, oh forze mirabili e dolorose di un
pregiudizio generale! Non all’infinità dei contatti attribuivano i più
quell’effetto, ma agli untori …. Si disse che polveri venefiche e malefiche,
sparse lungo la strada, si fossero attaccate agli strascichi dei vestiti, e
tanto più ai piedi, chè in gran numero erano quel giorno andati scalzi….. il
povero senno umano cozzava con i fantasmi creati da sé!
Da quel giorno la furia del contagio andò sempre crescendo…. E la
popolazione di Milano si trovò ridotta a
poco più di sessantaquattro mila anime, mentre prima passava le dugento
cinquanta mila…..
Bisognava tener fornito il lazzaretto di medici, di chirurghi, di
medicine…..bisognava preparar nuovo alloggio per gli ammalati.
Moriva d’abbandono una gran
quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste.
I dotti vedevano, la più parte, l’annunzio e la ragione de’ guai in una cometa apparsa l’anno 1628 e
in una congiunzione di Saturno con Giove…….Pescavan ne’ libri esempi di peste
manufatta; …. Citavano cent’altri autori, che hanno trattato….di veleni, di
malìe, di polveri….,e quel funesto Delrio,…..
le cui Disquisizioni Magiche….furono
per più di un secolo norma e impulso potente di orribili e non interrotte
carneficine.
I processi che ne vennero in conseguenza non erano certamente una rarità
nella storia…..perchè in Palermo nel 1526, in Ginevra nel 1530, poi nel 1545 e
ancora nel 1574; in Casal Monferrato nel 1536, in Torino nel 1599 e di nuovo
nel 1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più
atrocissimi, molti infelici, come rei di aver propagata la
peste, con polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme.
Ma l’affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il più
celebre,…..c’è parso che potesse essere materia d’un nuovo lavoro (che sarà la Storia della Colonna Infame, opera che è
un severo atto d’accusa contro quei giudici
che in Milano hanno estorto le più orribili confessioni, sotto i
tormenti di atroci torture, e hanno condannato e ucciso degli innocenti, comportandosi da veri criminali della giustizia).
In conclusione si
può affermare, dopo quasi 400 anni: “Nihil sub sole novi” (non c’è niente di
nuovo sotto il sole!).
3 aprile 2020
Antonio Mucciaccio
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