Vasto
Marina: Fornace Petrini Storto e Tenaglia (foto Nicola D'Adamo)
da
VastoDomani gennaio 1997
Ad
inizio Novecento due "moderni stabilimenti" a Vasto Marina
"Li
fumande
di li matune"
Ricostruzione
storica del duro lavoro delle fornaci e dei vecchi metodi di produzione dei
laterizi. Il fascino del più antico dei material da costruzione.
di
NICOLA D'ADAMO
Le case
di Vasto, come quelle di altre città che non disponevano di cave di pietra,
sono state costruite per secoli con largo impiego di laterizi. Tanto che oggi
negli interventi di recupero vecchi edifici è tornato di moda mostrare con
orgoglio antichi mattoni faccia a vista di
volte, archi, colonne, pareti
interne ed esterne. Ciò che piace è il calore che creano questi manufatti di
tipo artigianale con forme spesso non proprio perfette.
Ci è
parso opportuno quindi ripercorrere la storia di questo nobile materiale da
costruzione che ha accompagnato l'uomo per tanti millenni.
L'USO DEI
MATTONI È ANTICHISSIMO
L'uso
dei laterizi, in special modo dei mattoni è antichissimo. Li usarono per le
loro costruzioni gli Assiro Babilonesi e gli Egiziani oltre 4000 anni prima di
Cristo. La principale occupazione degli Ebrei in Egitto era la fabbricazione di
mattoni "crudi", seccati al sole, fatti con la creta del Nilo. A Roma
l'uso di costruire pareti con mattoni "cotti", più resistenti, arriva
solo con Augusto, anche se si conosceva la tecnica di cottura in forno dei vasi
di creta già da moltissimi secoli. Nei primi due secoli dell'impero i mattoni
furono usati da soli o frammisti a reticolato di tufo. Dal III secolo in poi si
preferì alternarli con blocchetti di tufo. Tale sistema prosegue fino al
medioevo con proporzioni sempre più ridotte di mattoni, finché questi
scompaiono del tutto e restano i "tufelli" a scaglie più o meno
regolari. (Su tegole e mattoni romani si trovano di frequente i bolli laterizi
con il nome del proprietario dell'officina, e del servo che li aveva fatti. I più
antichi bolli sono impressi nelle tegole in quanto i mattoni da paramento dei
muri compaiono solo con Tiberio. Le matrici erano in legno di quercia.) Nel pieno Rinascimento, però, i laterizi
diventano materiale d'eccellenza per le costruzioni, continuando questo impiego
fino ai nostri giorni. Negli ultimi decenni, però, con l'avvento del cemento
armato sono scomparse le pareti esterne in mattoni per far posto a intonaci di
dubbio gusto estetico.
le tre
ciminiere di Vasto Marina: da sinistra la Fornace di Spataro Mariani e Bottari,
al centro il Sansificio, poi la Fornace di Petrini Storto & Tenaglia.
LE
FORNACI DI VASTO MARINA
L'industria
dei laterizi a Vasto contava ad inizio Novecento due stabilimenti: quello di
Storto (divenuto poi Petrini Storto Tenaglia, ai piedi di Montevecchio demolito
pochi anni fa per far posto alla galleria ferroviaria) e l'altro di Spataro
Mariani Bottari (divenuto poi di Raffaele Petroro) sempre a Vasto stazione via
Cona a Mare (poco al di sopra della vecchia caserma della Finanza) che ha
cessato l'attività prima della guerra.
Da
"Istonio" del 30 agosto 1908 leggiamo testualmente. " II giorno
22 , dinanzi ad una eletta e numerosa schiera di invitati, la società
"Spataro Mariani Bottari" ha solenne mente inaugurato la sua fabbrica
di laterizi nei pressi della stazione ferroviaria.. La fornace è del sistema
Lanuzzi, e cioè dei più moderni e perfetti, e tanto la qualità dell'argilla che
la lavorazione non temono confronti. Per la prosperità della ditta e per lo
sviluppo industriale della nostra città facciamo quindi voti che il nuovo
stabilimento abbia vita feconda e sia di esempio e d'incoraggiamento ad altre
possibili iniziative locali".
Dopo una
ventina di anni la famiglia Spataro non aveva più interesse a seguire la
gestione della fornace. Così offrì la possibilità di acquisto (con pagamento
dilazionato) al caposquadra della fornace Raffaele Petroro che nel 1929 comprò
nuovi macchinari per riammodernare l'impianto. Nel giro di una diecina d'anni
però l'argilla cominciava a scarseggiare nella zona, Petroro quindi decise di
cambiare sito e trasferirsi in località Palombari verso Sant'Antonio Abate
(attuale sede Pianeta superConad). Nella nuova fornace - dove lavoravano anche
i tre figli di Raffaele di nome Nicola, Giovanni e Paolo -l'argilla a valle
dell'impianto veniva prelevato da una teleferica, gioiello della tecnologia
che durante la guerra fu distrutta dai tedeschi. Con l'arrivo degli Alleati
poi il capannone fu liberato dai macchinar! e utilizzato quale deposito per le
derrate alimentari destinate alle truppe del generale Montgomery.
Anni '50
Fornace Petroro (attuale Pianeta Conad) la
teleferica per il prelievo dell'argilla a valle dello stabilimento
Nel
dopoguerra fa duro riavviare l'attività e non disponendo subito di nuovi
macchinari per qualche anno si tornò alla vecchia tecnica dei mattoni fatti a
mano come fino al secolo scorso.
Poi
l'attività della fornace Petroro riprese a pieno ritmo e i risultati economici
cominciarono ad arrivare. Agli inizi de gli anni '60 la ditta Petroro, ora
denominata SILPE, avviò anche un modernissimo impianto sotto la ferrovia in
contrada San Tommaso a Vasto Marina (attuale sede della Iveco Tessitore), con
una mano d'opera oscillante tra i 30 e i 50 operai.
L'industria
dei laterizi segue l'andamento dell’edilizia. Grande boom negli anni 70 e crisi
profonda negli anni '80. Fu così che Vasto vide la chiusura delle due fornaci
di Petroro. Quella di Petrini Storto e Tenaglia era già stata chiusa alcuni
anni prima.
Lo
stabilimento durante una fase di rifacimento del forno, in
evidenza il fondatore della ditta Raffaele Petroro con il figlio Giovanni
COME
FUNZIONAVA LA PRIMA "FUMANDE" DI PETRORO A VASTO STAZIONE
Silvio
Petroro, nipote di Raffaele e noto promotore di iniziative a favore degli
emigranti, ci racconta come funzionava la vecchia fornace.
"E'
con enorme piacere che faccio questo tuffo nel passato per ricordare un pezzo
di storia della nostra città. Io ero molto piccolo quando avevamo questa
fornace, ma vivevo buona parte delle mie giornate in mezzo agli operai: erano
una trentina in tutto. Si lavorava sodo e le giornate erano lunghe, ma c'erano
anche i momenti di relax come quando faceva brutto tempo e si scherzava tutti
assieme sotto il capannone.
LA CAVA
L'argilla
è molto comune in natura e si trova in strati appena al di sotto del terreno.
La sua composizione però non è mai pura, spesso contiene anche altri elementi.
A Vasto stazione comunque era molto buona e dava un ottimo prodotto finito. La
prima operazione che si faceva era l'eliminazione, a monte della cava, dello
strato di terreno vegetale. Poco più giù, nei gradoni successivi, altre squadre
di operai lavoravano a "lu pette di la crete". Scavavano l'ar gilla
(normalmente con la zappa, con il piccone se troppo consistente) e la
spingevano a valle.
Alla
fine dei gradoni un altro addetto caricava il carrello, che viaggiando su un
binario in leggera discesa, andava a scaricare alla tramoggia. L'operazione
non era proprio semplice perché il carrello, abbastanza pesante, in discesa
prendeva una certa velocità. Ricordo che gli operai, in piedi dietro il mezzo,
cercavano di frenarlo con un apposito pezzo di legno! Nelle fasi successive
l'argilla subiva l'operazione di sminuzzamento, affinazione e impasto.
L'IMPIANTO
L'argilla,
prima di giungere alle eliche della tramoggia per subire la prima
frantumazione, doveva essere opportunamente bagnata. Qui bisogna ricordare una
storia piuttosto singolare.
Non bastando
più l'acqua del pozzo perché il nuovo impianto aveva ritmi produttivi molto
alti, mio nonno Raffaele pensò di approvvigionarsi, data la piccola distanza,
d’acqua di
mare. In
cartoline a epoca si vedono asini con barili in riva al mare con la dicitura
"Portatori d'acqua"! Dopo la tramoggia l'argilla veniva lavorata con
disintegratori costituiti da due rulli ad alta velocità. Successivamente il
pastone ormai raffinato finiva in un cilindro nel cui interno ruotava un albero
centrale provvisto di lame ad elica, le quali avevano lo scopo di impastare la
massa e di spingerla contemporaneamente verso l'uscita dove era ubicata la
"filiera". I mattoni quindi venivano tagliati a distanza
prestabilita. All'epoca il taglio avveniva a mano tre per volta. Se il capo
squadra non ce la faceva perché l'argilla era troppo dura bi-sognava fermare
l'impianto e aiutarsi con la cenere. Classico era il fischio dei vari operai
per avvertire quello della tramoggia di non caricare più il materiale.
"Lu
mastre" nello stabilire le dimensioni doveva tenere conto del ritiro dei
pezzi durante l'essiccazione e la cottura. Dopo la formatura entrava in azione
un'altra figura tipica delle fornaci "lu cariulande", l'uomo che
prendeva i mattoni dalla linea di produzione, li trasportava con la carriola
alle tettoie esterne. Qui sotto le cannucce li "arricciave". li
disponeva cioè a scacchiera (a nido d'ape) in cataste alte circa due metri in
modo che potessero ricevere aria dall'esterno. La fase di essiccazione durava
in genere da 3 a 7 giorni.
FORNO DI
COTTURA
I
mattoni per assumere consistenza devono essere cotti a circa 1100 gradi. In
tempi moderni la tecnologia ha fattopassi da gigante semplificando tutto, ma
allora il processo era ancora molto artigianale, anche se di una certa
complessità.
La
figura più importante della fornace era il fuochista, l'uomo che conosceva
tutti i segreti del mestiere, colui che con un colpo d'occhio riusciva a capire
quali erano le temperature dentro il forno, quali erano i metodi per produrre
pezzi di qualità, magari risparmiando sugli onerosi costi di energia.
Il forno
era formato da una galleria a forma ellittica fornita di porte esterne per il
carico e scarico del materiale e di valvole di tiraggio per la regolazione
della combustione. Lo spazio tra una valvola e l'altra veniva chiamato
"camera di cottura ". Qui dentro si disponevano i mattoni "a
nociate" ( a nido d'ape).
Nel
sistema "Lanuzzi della prima fornace di Vasto stazione e nel successivo
sistema "Hoffmann" era il fuoco che proseguiva avanti nella galleria,
mentre il materiale rimaneva statico.
Il ciclo
era composto da tre fasi: "preriscaldamento'', ''cottura" e
"raffreddamento".
Il
fuochista aumentava il forno dal tetto, tramite le “bocchette”. Alzava i loro
coperchi con il caratteristico "uncino", prendeva il carbone con la
"sesera" e l'infilava dentro il condotto.
Al tempo
c'era penuria di combustibile e per risparmiare si usava anche "lu
nocce" (sansa) o “li scische di lu mare” (misto di alghe, foglie e altri
residui delle mareggiate).
Il
fuochista portava avanti "nu corpe di lu foche" (zona della
combustione) pari a 12 boccchette per volta per una lunghezza di circa 4 metri
lungo il forno.
Quando i
mattoni della prima zona erano giunti a cottura (in genere dopo 24 ore), egli
chiudeva le valvole e non alimentava più le prime 4 "bocchette":
avanzava lungo la linea accendendo le successive. Così facendo "lu corpe
dì lu foche" a 1100 gradi procedeva lentamente, per giorni, cuocendo i
mattoni camera per camera. Quotidianamente si scaricavano i cotti e si
caricavano i crudi.
All'epoca
le ciminiere delle fornaci erano molto alte. Nel processo c'era bisogno di una
notevole forza di tiraggio naturale perché l'aria, prima e dopo la combustione,
doveva assolvere a tutta una serie di funzioni. Nelle prime camere, infatti,
raffreddava il materiale appena cotto. Poi, già calda, serviva alla combustione
nella zona a 1100 gradi. Successivamente, trasformata in fumi caldi, andava a
preriscaldare i mattoni da cuocere. Alla fine quasi fredda finiva nella
ciminiera. Questi passaggi erano regolati da un complesso sistema di valvole
che il fuochista conosceva alla perfezione. Da notare che i mattoni erano
disposti "a ricciate", a nido d'ape, proprio per permettere all'aria di
potersi infilare dentro le varie cataste. In
genere la fornace fermava l'attività per 3-4 mesi durante l'inverno. Si
approfittava di questo periodo per risistemare il forno ed il resto degli
impianti e per fare una buona manutenzione straordinaria.
A
primavera c'era il rito della riaccensione. Tutto il personale si radunava
vicino al forno. il frate celebrava la Messa e invocava la benedizione di San
Michele Arcangelo protettore dei fornaciai. Poi si ripartiva per un altro anno
di duro lavoro."
Un
grazie a Silvio Petroro per la semplicità con cui ha esposto questi concetti.
Fornace
Petroro (ora Pianeta Conad) tettoie di essiccazione dei laterizi
I
MATTONI FATTI A MANO APPENA DOPO LA GUERRA
Petroro
ha anche accennato al fatto che appena dopo la guerra sono stati costretti, per
un periodo, a rifare i mattoni a mano come nel secolo scorso. "Non potendo
far ripartire subito la fornace in località Palombari abbiamo aperto tre siti
dove fare mattoni a mano : sotto San Lorenzo (verso il Sinello), a Motticce
(San Salvo), a Bufalara (Cupello).
II
metodo, antichissimo, era piuttosto rudimentale e la qualità dei mattoni non
certo eccellente. In sostanza si prelevava l'argilla piuttosto fresca, si metteva
in vasconi, si bagnava con l'acqua, si amalgamava con i piedi o con l'ausilio
di un paletto di legno. Il lavoro era faticoso e richiedeva persone piuttosto
robuste.
II
manovale poi portava l'argilla lavorata sul bancone di "lu mastre" e
questi con estrema bravura formava due mattoni per volta con uno speciale
stampo in legno. I pezzi poi venivano stesi sul "piazzale", cosparsi
di sabbia, e coperti con cannucce o paglia per evitare l'essiccazione troppo
veloce.
Quando
erano pronti si raccoglievano e si "arricciavane" (si disponevano in
cataste a nido d'ape) dentro la "calicare". Questo rudimentale forno
spesso veniva realizzato vicino ad un costone dove si scavava una grotta
profonda qualche metro.
Le
cataste di mattoni si disponevano in forma piramidale e con una zona centrale
riservata alla brace ed al camino. La parte esterna al costone veniva
completamente chiusa da argilla e paglia in modo da non far fuoriuscire il
fuoco. La "calicare" veniva riscaldata dalle fascine bruciate su una
grata posta all'imboccatura. Le temperature che si poteva no raggiungere non
superava no i 600 gradi.
I
mattoni non si cuocevano completamente."
Dopo
spiegazioni così tecniche da parte di Silvio Petroro poco resta da aggiungere.
Probabilmente
con questo sistema sono stati fatti, anticamente, tutti i mattoni del nostro
centro storico. Forse non saranno di una qualità eccellente, ma a distanza di
secoli reggono ancora! E poi sono anche belli a vedersi. Certamente sono di
gran lunga superiori a quelle orribili plastiche murali tanto in voga qual che
anno fa!
NICOLA
D'ADAMO
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