mercoledì 2 dicembre 2020

LA STORIA DELLE NOSTRE FORNACI


Vasto Marina: Fornace Petrini Storto e Tenaglia (foto Nicola D'Adamo)

 

da VastoDomani gennaio 1997

Ad inizio Novecento due "moderni stabilimenti" a Vasto Marina

"Li fumande 

di li matune"

Ricostruzione storica del duro lavoro delle fornaci e dei vecchi metodi di produzione dei laterizi. Il fascino del più antico dei material da costruzione.

 di NICOLA D'ADAMO

 Le case di Vasto, come quelle di altre città che non disponevano di cave di pietra, sono state costruite per secoli con largo impiego di laterizi. Tanto che oggi negli interventi di recupero vecchi edifici è tornato di moda mostrare con orgoglio antichi mattoni faccia a vista di

volte, archi, colonne, pareti interne ed esterne. Ciò che piace è il calore che creano questi manufatti di tipo artigianale con forme spesso non proprio perfette.

Ci è parso opportuno quindi ripercorrere la storia di questo nobile materiale da costruzione che ha accompagnato l'uomo per tanti millenni.

 L'USO DEI MATTONI È ANTICHISSIMO

 L'uso dei laterizi, in special modo dei mattoni è antichissimo. Li usarono per le loro costruzioni gli Assiro Babilonesi e gli Egiziani oltre 4000 anni prima di Cristo. La principale occupazione degli Ebrei in Egitto era la fabbricazione di mattoni "crudi", seccati al sole, fatti con la creta del Nilo. A Roma l'uso di costruire pareti con mattoni "cotti", più resistenti, arriva solo con Augusto, anche se si conosceva la tecnica di cottura in forno dei vasi di creta già da moltissimi secoli. Nei primi due secoli dell'impero i mattoni furono usati da soli o frammisti a reticolato di tufo. Dal III secolo in poi si preferì alternarli con blocchetti di tufo. Tale sistema prosegue fino al medioevo con proporzioni sempre più ridotte di mattoni, finché questi scompaiono del tutto e restano i "tufelli" a scaglie più o meno regolari. (Su tegole e mattoni romani si trovano di frequente i bolli laterizi con il nome del proprietario dell'officina, e del servo che li aveva fatti. I più antichi bolli sono impressi nelle tegole in quanto i mattoni da paramento dei muri compaiono solo con Tiberio. Le matrici erano in legno di quercia.)   Nel pieno Rinascimento, però, i laterizi diventano materiale d'eccellenza per le costruzioni, continuando questo impiego fino ai nostri giorni. Negli ultimi decenni, però, con l'avvento del cemento armato sono scomparse le pareti esterne in mattoni per far posto a intonaci di dubbio gusto estetico.

 


 le tre ciminiere di Vasto Marina: da sinistra la Fornace di Spataro Mariani e Bottari, al centro il Sansificio, poi la Fornace di Petrini Storto & Tenaglia.

 

LE FORNACI DI VASTO MARINA

 L'industria dei laterizi a Vasto contava ad inizio Novecento due stabilimenti: quello di Storto (divenuto poi Petrini Storto Tenaglia, ai piedi di Montevecchio demolito pochi anni fa per far posto alla galleria ferroviaria) e l'altro di Spataro Mariani Bottari (divenuto poi di Raffaele Petroro) sempre a Vasto stazione via Cona a Mare (poco al di sopra della vecchia caserma della Finanza) che ha cessato l'attività prima della guerra.

Da "Istonio" del 30 agosto 1908 leggiamo testualmente. " II giorno 22 , dinanzi ad una eletta e numerosa schiera di invitati, la società "Spataro Mariani Bottari" ha solenne mente inaugurato la sua fabbrica di laterizi nei pressi della stazione ferroviaria.. La fornace è del sistema Lanuzzi, e cioè dei più moderni e perfetti, e tanto la qualità dell'argilla che la lavorazione non temono confronti. Per la prosperità della ditta e per lo sviluppo industriale della nostra città facciamo quindi voti che il nuovo stabilimento abbia vita feconda e sia di esempio e d'incoraggiamento ad altre possibili iniziative locali".

 

Dopo una ventina di anni la famiglia Spataro non aveva più interesse a seguire la gestione della fornace. Così offrì la possibilità di acquisto (con pagamento dilazionato) al caposquadra della fornace Raffaele Petroro che nel 1929 comprò nuovi macchinari per riammodernare l'impianto. Nel giro di una diecina d'anni però l'argilla cominciava a scarseggiare nella zona, Petroro quindi decise di cambiare sito e trasferirsi in località Palombari verso Sant'Antonio Abate (attuale sede Pianeta superConad). Nella nuova fornace - dove lavoravano anche i tre figli di Raffaele di nome Nicola, Giovanni e Paolo -l'argilla a valle dell'impianto veniva prelevato da una tele­ferica, gioiello della tecnologia che durante la guerra fu di­strutta dai tedeschi. Con l'arrivo degli Alleati poi il capannone fu liberato dai macchinar! e utilizzato quale deposito per le derrate ali­mentari destinate alle truppe del generale Montgomery.

 


 Anni '50 Fornace Petroro (attuale Pianeta Conad) la teleferica per il prelievo dell'argilla a valle dello stabilimento

Nel dopoguerra fa duro riavviare l'attività e non disponendo subito di nuovi macchinari per qualche anno si tornò alla vecchia tecnica dei mattoni fatti a mano come fino al secolo scorso.

Poi l'attività della fornace Petroro riprese a pieno ritmo e i risultati economici cominciarono ad arrivare. Agli inizi de gli anni '60 la ditta Petroro, ora denominata SILPE, avviò anche un modernissimo impianto sotto la ferrovia in contrada San Tommaso a Vasto Marina (attuale sede della Iveco Tessitore), con una mano d'opera oscillante tra i 30 e i 50 operai.

 L'industria dei laterizi segue l'andamento dell’edilizia. Grande boom negli anni 70 e crisi profonda negli anni '80. Fu così che Vasto vide la chiusura delle due fornaci di Petroro. Quella di Petrini Storto e Tenaglia era già stata chiusa alcuni anni prima.


 
Lo stabilimento durante una fase di rifacimento del forno, in evidenza il fondatore della ditta Raffaele Petroro con il figlio Giovanni

 

COME FUNZIONAVA LA PRIMA "FUMANDE" DI PETRORO A VASTO STAZIONE

 Silvio Petroro, nipote di Raffaele e noto promotore di iniziative a favore degli emigranti, ci racconta come funzionava la vecchia fornace.

"E' con enorme piacere che faccio questo tuffo nel passato per ricordare un pezzo di storia della nostra città. Io ero molto piccolo quando avevamo questa fornace, ma vivevo buona parte delle mie giornate in mezzo agli operai: erano una trentina in tutto. Si lavorava sodo e le giornate erano lunghe, ma c'erano anche i momenti di relax come quando faceva brutto tempo e si scherzava tutti assieme sotto il capannone.

 LA CAVA

 L'argilla è molto comune in natura e si trova in strati appena al di sotto del terreno. La sua composizione però non è mai pura, spesso contiene anche altri elementi. A Vasto stazione comunque era molto buona e dava un ottimo prodotto finito. La prima operazione che si faceva era l'eliminazione, a monte della cava, dello strato di terreno vegetale. Poco più giù, nei gradoni successivi, altre squadre di operai lavoravano a "lu pette di la crete". Scavavano l'ar gilla (normalmente con la zappa, con il piccone se troppo consistente) e la spingevano a valle.

Alla fine dei gradoni un altro addetto caricava il carrello, che viaggiando su un binario in leggera discesa, andava a scaricare alla tramoggia. L'o­perazione non era proprio semplice perché il carrello, ab­bastanza pesante, in discesa prendeva una certa velocità. Ricordo che gli operai, in piedi dietro il mezzo, cercavano di frenarlo con un apposito pezzo di legno! Nelle fasi successive l'argilla subiva l'operazione di sminuzzamento, affinazione e impasto.

L'IMPIANTO

 L'argilla, prima di giungere alle eliche della tramoggia per subire la prima frantumazione, doveva essere opportunamente bagnata. Qui bisogna ricordare una storia piuttosto singolare.

 Non bastando più l'acqua del pozzo perché il nuovo impianto aveva ritmi produttivi molto alti, mio nonno Raffaele pensò di approvvigionarsi, data la piccola distanza, d’acqua di

 mare. In cartoline a epoca si vedono asini con barili in riva al mare con la dicitura "Portatori d'acqua"! Dopo la tramoggia l'argilla veniva lavorata con disintegratori costituiti da due rulli ad alta velocità. Successivamente il pastone ormai raffinato finiva in un cilindro nel cui interno ruotava un albero centrale provvisto di lame ad elica, le quali avevano lo scopo di impastare la massa e di spingerla contemporaneamente verso l'uscita dove era ubicata la "filiera". I mattoni quindi venivano tagliati a distanza prestabilita. All'epoca il taglio avveniva a mano tre per volta. Se il capo squadra non ce la faceva perché l'argilla era troppo dura bi-sognava fermare l'impianto e aiutarsi con la cenere. Classico era il fischio dei vari operai per avvertire quello della tramoggia di non caricare più il materiale.

 "Lu mastre" nello stabilire le dimensioni doveva tenere conto del ritiro dei pezzi durante l'essiccazione e la cottura. Dopo la formatura entrava in azione un'altra figura tipica delle fornaci "lu cariulande", l'uomo che prendeva i mattoni dalla linea di produzione, li trasportava con la carriola alle tettoie esterne. Qui sotto le cannucce li "arricciave". li disponeva cioè a scacchiera (a nido d'ape) in cataste alte circa due metri in modo che potessero ricevere aria dall'esterno. La fase di essiccazione durava in genere da 3 a 7 giorni.

 FORNO DI COTTURA

 I mattoni per assumere consistenza devono essere cotti a circa 1100 gradi. In tempi moderni la tecnologia ha fattopassi da gigante semplificando tutto, ma allora il processo era ancora molto artigianale, an­che se di una certa comples­sità.

La figura più importante della fornace era il fuochista, l'uomo che conosceva tutti i segreti del mestiere, colui che con un colpo d'occhio riusciva a capire quali erano le temperature dentro il forno, quali erano i metodi per produrre pezzi di qualità, magari risparmiando sugli onerosi costi di energia.

Il forno era formato da una galleria a forma ellittica fornita di porte esterne per il carico e scarico del materiale e di valvole di tiraggio per la regolazione della combustione. Lo spazio tra una valvola e l'altra veniva chiamato "camera di cottura ". Qui dentro si disponevano i mattoni "a nociate" ( a nido d'ape).

Nel sistema "Lanuzzi della prima fornace di Vasto stazione e nel successivo sistema "Hoffmann" era il fuoco che proseguiva avanti nella galleria, mentre il materiale rimaneva statico.

 Il ciclo era composto da tre fasi: "preriscaldamento'', ''cottura" e "raffreddamento".

Il fuochista aumentava il forno dal tetto, tramite le “bocchette”. Alzava i loro coperchi con il caratteristico "uncino", prendeva il carbone con la "sesera" e l'infilava dentro il condotto.

Al tempo c'era penuria di combustibile e per risparmiare si usava anche "lu nocce" (sansa) o “li scische di lu mare” (misto di alghe, foglie e altri residui delle mareggiate).

 Il fuochista portava avanti "nu corpe di lu foche" (zona della combustione) pari a 12 boccchette per volta per una lunghezza di circa 4 metri lungo il forno.

Quando i mattoni della prima zona erano giunti a cottura (in genere dopo 24 ore), egli chiudeva le valvole e non alimentava più le prime 4 "bocchette": avanzava lungo la linea accendendo le successive. Così facendo "lu corpe dì lu foche" a 1100 gradi procedeva lentamente, per giorni, cuocendo i mattoni camera per camera. Quotidianamente si scaricavano i cotti e si caricavano i crudi.

 All'epoca le ciminiere delle fornaci erano molto alte. Nel processo c'era bisogno di una notevole forza di tiraggio naturale perché l'aria, prima e dopo la combustione, doveva assolvere a tutta una serie di funzioni. Nelle prime camere, infatti, raffreddava il materiale appena cotto. Poi, già calda, serviva alla combustione nella zona a 1100 gradi. Successivamente, trasformata in fumi caldi, andava a preriscaldare i mattoni da cuocere. Alla fine quasi fredda finiva nella ciminiera. Questi passaggi erano regolati da un complesso sistema di valvole che il fuochista conosceva alla perfezione. Da notare che i mattoni erano disposti "a ricciate", a nido d'ape, proprio per permettere all'aria di po­tersi infilare dentro le varie cataste. In genere la fornace fermava l'attività per 3-4 mesi durante l'inverno. Si approfittava di questo periodo per risistema­re il forno ed il resto degli im­pianti e per fare una buona manutenzione straordinaria.

 A primavera c'era il rito della riaccensione. Tutto il personale si radunava vicino al forno. il frate celebrava la Messa e invocava la benedizione di San Michele Arcangelo protettore dei fornaciai. Poi si ripartiva per un altro anno di duro lavoro."

Un grazie a Silvio Petroro per la semplicità con cui ha esposto questi concetti.


 
Fornace Petroro (ora Pianeta Conad) tettoie di essiccazione dei laterizi

 

I MATTONI FATTI A MANO APPENA DOPO LA GUERRA

 Petroro ha anche accennato al fatto che appena dopo la guerra sono stati costretti, per un periodo, a rifare i mattoni a mano come nel secolo scorso. "Non potendo far ripartire subito la fornace in località Palombari abbiamo aperto tre siti dove fare mattoni a mano : sotto San Lorenzo (verso il Sinello), a Motticce (San Salvo), a Bufalara (Cupello).

 II metodo, antichissimo, era piuttosto rudimentale e la qualità dei mattoni non certo eccellente. In sostanza si prelevava l'argilla piuttosto fresca, si metteva in vasconi, si bagnava con l'acqua, si amalgamava con i piedi o con l'ausilio di un paletto di legno. Il lavoro era faticoso e richiedeva persone piuttosto robuste.

II manovale poi portava l'argilla lavorata sul bancone di "lu mastre" e questi con estrema bravura formava due mattoni per volta con uno speciale stampo in legno. I pezzi poi venivano stesi sul "piazzale", cosparsi di sabbia, e coperti con cannucce o paglia per evitare l'essiccazione troppo veloce.

 Quando erano pronti si raccoglievano e si "arricciavane" (si disponevano in cataste a nido d'ape) dentro la "calicare". Questo rudimentale forno spesso veniva realizzato vicino ad un costone dove si scavava una grotta profonda qualche metro.

 Le cataste di mattoni si disponevano in forma piramidale e con una zona centrale riservata alla brace ed al camino. La parte esterna al costone veniva completamente chiusa da argilla e paglia in modo da non far fuoriuscire il fuoco. La "calicare" veniva riscaldata dalle fascine bruciate su una grata posta all'imboccatura. Le temperature che si poteva no raggiungere non superava no i 600 gradi.

I mattoni non si cuocevano completamente."

 Dopo spiegazioni così tecniche da parte di Silvio Petroro poco resta da aggiungere.

 Probabilmente con questo sistema sono stati fatti, anticamente, tutti i mattoni del nostro centro storico. Forse non saranno di una qualità eccellente, ma a distanza di secoli reggono ancora! E poi sono anche belli a vedersi. Certamente sono di gran lunga superiori a quelle orribili plastiche murali tanto in voga qual che anno fa!

 NICOLA D'ADAMO

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