Per
non dimenticare
Un ricordo di Raffaello
Giolli, noto critico d’arte, internato a Vasto nel 1940, liberato, arrestato di
nuovo a Milano nel 1944 e deportato a Mauthausen, dove morì il 6 gennaio 1945.
di
Gabriella Izzi Benedetti
Il 27 gennaio di ogni
anno, giornata – anniversario mondiale della Memoria, ha il merito di tributare
un omaggio ai milioni di individui, di ogni razza, confessione, ideologia,vittime
di violenza cieca, e trasmettere un’esortazione: che una delle più terribili
pagine della storia non venga dimenticata. Una pagina di orrore e liberazione,
poiché in quel giorno, 27 gennaio 1945, il campo di sterminio di Auschwitz venne
liberato e si palesò con raccapriccio ciò di cui quei luoghi erano stati
testimoni e depositari. Si deve all’impegno di Furio Colombo se questa celebrazione
è stata istituita in Italia nel 2000. Ratificata con la risoluzione 60/7
dall’Assemblea generale dell’ONU il 1° novembre 2005.
In una cerimonia molto sentita, due anni fa, in occasione della ricorrenza del Giorno della Memoria, fu posta presso il Liceo scientifico R. Mattioli una pietra d’inciampo per commemorare Raffaello Giolli, il raffinato critico d’arte piemontese confinato a Vasto, allora Istonio, assieme al figlio Paolo, per le sue idee antifasciste, e che morì a Mauthausen nel 1945. Pietre d’inciampo gli hanno dedicato molte città; tra esse non poteva mancare Milano, dove
molta parte della sua vita si svolse.Giolli, nato nel 1889
ad Alessandria, di fede cattolica, dedicò la sua vita allo studio dell’arte e
alla critica artistica, con particolare attenzione alle avanguardie. Di
formazione crociana, rispettoso di qualunque espressione artistica, cercò
tuttavia di individuare la validità espressiva,più che nel movimento di
provenienza, nel singolo artista; ad esempio ebbe delle perplessità riguardo al
futurismo, ma non riguardo a Boccioni. Del futurismo non amava la dissacrazione
del passato, poiché nel passato ci sono gli elementi che preparano il futuro. Docente,
scrittore di saggi, si doleva di un certo provincialismo dell’arte italiana, e
cercò di svecchiarla anche attraverso riviste che fondò, come Problemi
d'arte attuale, che in seguito prese il nome di Poligono.
Dopo molti anni di docenza presso l’Accademia libera di Vincenzo Cento, presso
licei statali milanesi Berchet, Parini, Beccaria, viene allontanato
dall’insegnamento per aver rifiutato il giuramento fascista. Giolli intuisce il
pericolo per l’arte di venire associata alla politica e da essa usata, come era
avvenuto in Germania in cui l’arte o era di regime oppure veniva estromessa. Ma
qualcosa del genere era successo anche in Russia dove la letteratura era stata
aggregata alla dittatura. Questo atteggiamento, del resto, è diffuso sempre e
dovunque in regimi dittatoriali. Cosa dovrebbe fare la società, allora. Non
affidarsi allo Stato, illudendosi che lo Stato sia un mecenate che lascia
spazio alla libertà di espressione. Se protegge, vuole asservire. E il regime
si preoccupa di operare in tal senso dalla prima infanzia. Le idee di Raffaello
Giolli generano sospetto. E’ inviso al governo, l’OVRA lo arresta e lo interna
a Istonio Marina (Vasto), dal luglio 1940 al febbraio 1941, assieme al figlio
Paolo. Giolli ha 51 anni. Tornato in
Lombardia la sua attività antifascista prosegue; entrerà a far parte del
movimento partigiano della Val d'Ossola. A Milano forma un gruppo di lotta
costituito per la maggior parte da artisti e intellettuali, collabora con
giornali clandestini, fino a che il 14 settembre 1944 viene arrestato con la
moglie e il figlio Federico, torturato e infine deportato a Mauthausen, in Austria, dove muore al campo Gusen il 6 gennaio
1945. Non saprà mai della morte del figlio Ferdinando, promettente poeta e
critico letterario, fucilato nell’ottobre del 1944 a Villeneuve in Val d'Aosta.
Giolli, si diceva,
fece
parte del gruppo degli internati a Vasto
Marina, molti dei quali persone di cultura, che trovarono nel direttore della Biblioteca comunale, Luigi Anelli, un
uomo aperto, persona colta, che seppe apprezzare la loro presenza e condividere
la loro situazione.
Nicola D’Adamo che ha collaborato al
testo I fili della memoria: anni di guerra 1943/44.
Testimonianze e approfondimenti progettato dalla Società Vastese di
Storia Patria, ci ha trasmesso l’elenco degli internati, oltre a una
interessante ricerca su alcuni di coloro che furono i confinati a Istonio
Marina. Tra i molti Mario Borsa in
seguito direttore del Corriere della Sera, Guido Mazzali giornalista e uomo
politico, Giuseppe Scalarini, celebre vignettista, Raffaello Giolli (l’unico ad
aver fatto una fine così atroce) sul quale si sofferma, riportando anche la
testimonianza di Giorgio Pillon che conobbe il critico d’arte.
La prefazione di Pillon al libro di
Luigi Anelli Ricordi
di Storia Vastese, diviene un significativo approccio alla personalità
del Giolli: “Giolli era stato fino ad
allora un notissimo critico d’arte. Legato alle esperienze del Novecento,
aveva appoggiato non poche iniziative delle avanguardie razionalistiche, in particolare quella del Gruppo 7, tese a rinnovare la cultura
architettonica italiana … Inoltre era
stato lui ad imporre in Italia la pittura di Pablo Picasso. Ancora oggi ricordo come don Luigi Anelli –
nella pace della “sua” biblioteca – accogliesse l’esaltazione di Picasso.
Scuoteva la testa e indicandomi Raffaello Giolli mi diceva “Quello è matto”.
Dice che Picasso vale mille volte
Filippo Palizzi…. Una volta Raffaello disse a don Luigi e a me: “Voi non
potete capire Picasso. E’ come se io citassi in greco classico l’Odissea a uno
che non sa nemmeno parlare in italiano! “Ebbene” gli risposi “c’insegni il greco,
cioè ci faccia capire Picasso”. Da allora Raffaello Giolli iniziò tutta una
serie di lezioni che io ascoltai avvinto, ma che don Luigi Anelli seguì
allegramente e saltuariamente”.
A Raffaello Giolli non fu d’aiuto
essere di salda fede cattolica. Non fu d’aiuto a noti medici, scienziati ebrei
e non, essere o essere stati dei benefattori dell’umanità nel campo della
ricerca. Non fu d’aiuto a filosofi, artisti, intellettuali. Il libero pensiero
meritava l’annientamento. Lo sappiamo, furono milioni. Un olocausto, si usa
dire; ma il termine “olocausto”è, più che riduttivo, improprio, perché indica
un sacrificio rituale, che potrebbe perfino sconfinare nel rito espiatorio. Ciò
che è accaduto non ha niente di religioso e sacrificale, si tratta di
assassinio vero e proprio. Non a caso in ebraico si preferisce il termine shoah
= catastrofe. Da noi
s’incomincia a privilegiare “annientamento, o sterminio”.
E
annientamento fu sempre anche in luoghi dove, per una sorta di gradazione degli
orrori, la situazione venne gestita in modo meno atroce, il che porta qualcuno
quasi a giustificarli. Il sopruso è sopruso, la violenza è violenza, privare
gli individui di diritti, di dignità, umiliarli,trattarli in forma bestiale
equivale a ucciderli nell’anima oltre, come spesso è accaduto, nel corpo. E quelle
ferite sono state così insanabili che tanti, anche a distanza di tempo, si sono
tolti la vita. Questa terribile realtà, questi brutali metodi furono
adottati anche dal Regime fascista, e non è possibile rimuoverli, ma bisogna
andare a fondo, sviscerarli, perché non si ripetano mai più.
In
Abruzzo i campi di concentramento furono molti, specie nel teramano (otto).
Tanti dei detenuti vennero deportati nei luoghi di sterminio tedeschi. Tutti
orribili; ma certo, Aushwitz fu la massima espressione della brutalità. E a tal
proposito mi sento di trascrivere dalla rivista “Prospettiva persona” (72/10,
p. 61) questo profondo pensiero di Giuseppe Graziani: “ad Auschwitz c’era
l’uomo – lo sappiamo – e non solo tra le vittime, pure tra i carnefici.
Nell’uomo, nell’umanità, quindi, è insita – l’abbiamo visto – la possibilità di
Auschwitz. E da ciò ineluttabilmente, senza possibilità d’infingimenti,
discende che il mondo, ancora, potrebbe essere costretto a contemplare – perché
già ha contemplato – Auschwitz. L’odio è un formidabile combustibile, basta
soffiare per il verso giusto e l’uomo – oggi come ieri – potrebbe nuovamente
essere chiamato a dover scegliere, con coraggio, con paura, tra bene e male
perché il mostro è sempre tra noi, è sempre gravido: ora veste i panni mai
dismessi dell’antisemitismo; ora quelli subdoli di una diffusa, ma non
dichiarata xenofobia; ora d’accesi nazionalismi ed odi etnici; alimentandosi,
comunque, ciclicamente, delle medesime derive.
Auschwitz, in
conclusione, si sostanzia in una drammatica possibilità umana ed in quanto tale
in un luogo ove tutto di umano potrebbe essere possibile, perché tutto di
paraumano vi è stato possibile: dell’abisso morale senza fondo e perciò senza
Dio, alle vette più alte del sacrificio con Dio; dal pregiudizio dell’odio
nazista, al pre-giudizio dell’amore di Massimiliano Kolbe, che donò la vita
avuta in dono dal famigerato blocco undici del lager.”
E a chiusura di questo
breve momento di riflessione e confronto, vi lascio con il monito di Bertolt
Brecht, tratto dall’opera teatrale La
resistibile ascesa di Arturo Ui. Monito sempre e tristemente attuale: “E voi imparate che occorre vedere e non
guardare in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro stava una volta
per governare il mondo. I popoli lo spensero, ma non cantate vittoria troppo
presto. Il grembo da cui nacque è ancor fecondo”.
Ma riflettiamo anche
sulle parole meno amare, non per semplificazione del problema, ma per la
speranza che trasmettono, dette da Benedetto
XVI, in visita, nel maggio 2006, ad Auschwitz: “Non sono venuto qui per odiare
insieme, ma per amare insieme la vita, l’uomo, la sua dignità, la sua libertà”.
Gabriella
Izzi Benedetti
Bellessime pagine e testimonianze toccanti per non dimenticare e per stare in guardia perchè "la madre dei mostri è sempre incinta "!
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